sabato 17 aprile 2010

Ne ho vedute tante da raccontar, giammai gli elefanti volar!


Trentacinque chili fa facevo fatica a muovermi e somigliavo più ad un pachiderma che ad un essere umano. Soffrivo il caldo, lo sforzo fisico e lo sguardo degli altri. Indossavo solo abiti larghi, quei pochi che riuscivano a contenere le tante bellezze di cui madre natura e amica heineken mi avevano dotato e, in estate, una tutina grigio dumbo che aggiungeva il giusto colore alle mie forme elefantiache.
Trentacinque chili fa ero emotivamente costretta in un dolore sordo e profondo al quale avevo inconsciamente creato un enorme spazio per poter essere contenuto e conservato. Non mi guardavo allo specchio e non cercavo minimamente di migliorarmi perché io, il mio grasso e il mio dolore ci bastavamo e avanzavamo. Ci tenevamo caldo e ci consolavamo. E rimanevamo lì a cullarci, in quello spazio senza tempo e senza materia dove non era lecito consumare nemmeno un abbraccio, né un bacio.
Oggi attraverso le strisce pedonali e le macchine si fermano per farmi passare. Se ho addosso una gonna e un paio di tacchi gli autisti si girano a guardare e, se particolarmente maschilisti, anche a commentare. I colleghi uomini mi riempiono di complimenti e vicini di casa e sconosciuti mi aprono la porta del condominio, della posta, del supermercato.
In questi trentacinque chili sono concentrate la gentilezza e la galanteria del mondo e io, inconsapevole di essere sessualmente repellente allora e sessualmente desiderabile adesso, continuo ad andare a spasso con lo stesso dolore sordo e profondo, costretto a rifugiarsi in un posticino più piccolo e dimesso dove la materia si fa distorta e il tempo si dilata. E ancora una volta senza un abbraccio, né un bacio.