venerdì 26 febbraio 2010

aranci aranci


Accendo la tv per sentire rumore in casa. Per compagnia, come direbbe mia nonna. Di sottofondo solo le voci sgradevoli delle conduttrici dei programmi del pomeriggio di Mediaset, che è l’unica cosa che si vede in questa casa senza antenna. Una dice che nella casa del Grande Fratello ci sono 26 gradi. Non per scelta degli autori, sottolinea. A causa delle luci. Dove vivo io ce ne sono 10, con i termosifoni e una stufa elettrica accesi. E qualche lampadina a risparmio energetico, sperando che l’unione faccia la forza.
I ragazzi in gabbia di canale 5 colorano lo schermo con pettorali scolpiti e tette rifatte in bella vista. Io, a casa mia, non riesco neppure a depilarmi per andare in piscina. Operazioni come questa richiedono una certa nudità e le nudità, qui, non sono permesse. No, no. Anche la doccia la faccio ad occhi chiusi, non sia mai che lo sforzo mi permetta di immaginare di trovarmi in una calda e assolata spiaggia del Brasile.
È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Non pensavo che si potesse vivere così al giorno d’oggi. Insomma, non a Milano, non nei loft che fanno tanto figo, fighetto e al passo con le nuove tendenze del design. Si parla tanto di terzo mondo e, a volte, il terzo mondo è più vicino di quanto non si creda. Il mio è un terzo mondo capitalistico. Sono l’ultima ruota del carretto sfondato che è l’Italia. Sono quella che prende la casa più piccola che c’è, perché 100 euro di affitto in meno fanno la differenza, quella che la arreda con mobili rubati nottetempo alle discariche e quella che non può permettersi una causa legale per rovinare i proprietari del suo tugurio. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, se pensiamo che, ad un km da qui, tenevo spento il termosifone di camera mia perché altrimenti non riuscivo a respirare. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, perché mi sveglio ogni mattina per andare a lavorare a 2000 km da casa mia e da tutti i miei affetti e non mi lamento perché la fatica mi rende indipendente. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Ma eccomi qui, a schiacciare in solitudine i miei maroni. In Sicilia si direbbe: “Aranci aranci, ri cui su i guai si chianci”. Qui non lo so, perché il dialetto lumbard è una di quelle cose che fortunatamente posso evitare di conoscere. Ri cu su i guai si chianci. Già, e piangere è davvero un fatto privato.

terrone in trasferta


Mi chiedo cosa voglio fare da grande. E mi rispondo che grande lo sono già. Allora chiedo agli altri di chiedermelo, magari sotto pressione mi viene qualche idea gloriosa. Ma gli altri non hanno tempo di fare domande. A Milano si corre e ci si ferma solo per una lampada o un paio di ore di shopping.
Eppure avevo dei sogni. Me lo ricordo. E migliaia di aspettative. Ed energie, per illudermi di potercela fare.
Milano. L’avevo immaginata diversa. Fredda, calcolatrice, grigia, fumosa, certo, ma diversa. Quando si cresce in un paesino piccolo piccolo come il mio, ci si convince che ciò che è grande, è bello per forza. O, quanto meno, è pieno di cose. Milano è grande ed è piena di cose, ma non è bella, né per forza, né con impegno. Milano è una grande bolla di vetro con la neve e le luci alle finestre. È una fortezza di paure, dove ognuno aspira a rifugiarsi nel suo metro quadrato con la chiusura ermetica. A Milano non ci si incontra. Se si ha voglia di compagnia, ci si iscrive a facebook e si passa il tempo ad accettare inviti di ogni tipo per iscriversi a gruppi di pensatori su qualcosa, qualunque cosa sia. Oppure ci si raggruppa per categorie, ex di questo e quello o nuovi appartenenti a quello o quell’altro. Tutto via internet, ovviamente, al di là delle finestre, oltre i vetri. Milano è la più grande illusione dello stivale e chi viene dal sud, come me, deve accontentarsi di guardare quelle luci dal vicolo pieno di neve e diffidenza. Chi viene dal sud come me è un terrone in trasferta. E lo è per tutta la durata della sua permanenza padana.
Vivo a Milano da più di tre anni. Lavoro precariamente qui, quest’anno da settembre a giugno. L’anno prossimo, Gelmini o non Gelmini, chissà.
Cosa voglio fare da grande? Non lo so. Ma più passa il tempo e più mi convinco che voglio tornare dalla trasferta. E festeggiare con gli amici di sempre la mia sconfitta.

30 novembre


Ho fatto una lasagna. Come una brava mamma di famiglia. Ho comprato il necessario e mi sono messa ai fornelli. L’ho fatto nello stesso giorno in cui mi sono messa in ghingheri per uscire. Come una normale trentenne single. Calze, profumo, un filo di trucco e un paio di tacchi.
Mentre lo facevo, ho trattenuto le lacrime e l’irrefrenabile desiderio di sbattermi sul letto con un pigiama di pile (che a casa mia fa freddo) e una tazza di latte e biscotti su cui rimuginare. Mentre lo facevo chiedevo con forza a me stessa di non chiedermi niente. Di non fare domande, che tanto non serve. Adesso ho il forno pieno e il loft che sa di ragù. Addosso un collant colorato perfettamente intonato al mio vestito a fiori e aspetto che arrivi l’ora happy per andare a sbronzarmi di campari come ogni domenica. Parlo parecchio, ma mi racconto un sacco di stronzate. Dovrei ammettere di essere profondamente infelice, ma questa parola riesco solo a scriverla, perché a sentirne il suono mi viene l’ansia.
Domani è lunedì. Si ricomincia. Metterò su il sorriso migliore e andrò a scuola. Magari riesco anche a scambiare due chiacchiere con la bidella.