Accendo la tv per sentire rumore in casa. Per compagnia, come direbbe mia nonna. Di sottofondo solo le voci sgradevoli delle conduttrici dei programmi del pomeriggio di Mediaset, che è l’unica cosa che si vede in questa casa senza antenna. Una dice che nella casa del Grande Fratello ci sono 26 gradi. Non per scelta degli autori, sottolinea. A causa delle luci. Dove vivo io ce ne sono 10, con i termosifoni e una stufa elettrica accesi. E qualche lampadina a risparmio energetico, sperando che l’unione faccia la forza.
I ragazzi in gabbia di canale 5 colorano lo schermo con pettorali scolpiti e tette rifatte in bella vista. Io, a casa mia, non riesco neppure a depilarmi per andare in piscina. Operazioni come questa richiedono una certa nudità e le nudità, qui, non sono permesse. No, no. Anche la doccia la faccio ad occhi chiusi, non sia mai che lo sforzo mi permetta di immaginare di trovarmi in una calda e assolata spiaggia del Brasile.
È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Non pensavo che si potesse vivere così al giorno d’oggi. Insomma, non a Milano, non nei loft che fanno tanto figo, fighetto e al passo con le nuove tendenze del design. Si parla tanto di terzo mondo e, a volte, il terzo mondo è più vicino di quanto non si creda. Il mio è un terzo mondo capitalistico. Sono l’ultima ruota del carretto sfondato che è l’Italia. Sono quella che prende la casa più piccola che c’è, perché 100 euro di affitto in meno fanno la differenza, quella che la arreda con mobili rubati nottetempo alle discariche e quella che non può permettersi una causa legale per rovinare i proprietari del suo tugurio. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, se pensiamo che, ad un km da qui, tenevo spento il termosifone di camera mia perché altrimenti non riuscivo a respirare. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, perché mi sveglio ogni mattina per andare a lavorare a 2000 km da casa mia e da tutti i miei affetti e non mi lamento perché la fatica mi rende indipendente. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Ma eccomi qui, a schiacciare in solitudine i miei maroni. In Sicilia si direbbe: “Aranci aranci, ri cui su i guai si chianci”. Qui non lo so, perché il dialetto lumbard è una di quelle cose che fortunatamente posso evitare di conoscere. Ri cu su i guai si chianci. Già, e piangere è davvero un fatto privato.