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martedì 30 marzo 2010

Amore a lunga conservazione


La maggior parte delle persone che conosco crede in qualcosa: Dio, la rivoluzione, la forza della musica, la bellezza dell’arte. Io non credo in niente e ho perso anche l’occasione di affidarmi al bambinello portafortuna di Praga che ho comprato e regalato alla mia amica Mari. Il mio niente è fatto di piccole cose che, a tratti, mi danno soddisfazione. Un po’ di sole a riscaldare la pianura padana, la seconda L che trova divertenti le mie lezioni, portare casa mia alla temperatura di 12 gradi. Piccole cose. Piccolissime. Ma significative.
Fino a qualche anno fa mi piaceva dispensare consigli. Mi faceva sentire più grande, più dentro alle cose. E avevo opinioni su tutto. E soluzioni logiche, pronte, infallibili.
Si dice che crescendo si migliora. Si dice, oppure scambio per regola il vago ricordo di qualcuno che me lo ripeteva quando il futuro non era ancora presente.
E io in qualche cosa sono migliorata. Conto fino a 10 prima di sparare a zero sulle cose e le persone, preferisco una cena tranquilla e due chiacchiere alle notti goliardiche e inutilmente alcoliche e mi concentro di più sui rapporti, quei pochi rapporti veri che mi sono rimasti. So anche chiedere aiuto, perché finalmente riesco ad ammettere di averne bisogno. Un bisogno spasmodico di sincerità, di amicizia, di verità. O, forse, solo di umana comprensione. Quella che Nino cercava nei miei occhi, che io ho provato a dargli, ma che ho irrimediabilmente confuso con l’amore, facendo un gran casino, come al mio solito.
Adesso Nino non c’è e non c’è niente al mondo che mi manchi più della sua risata scanzonata ed irriverente. Oggi saprei dargli quello che cercava e saprei dirgli che lo capisco, senza giudicare. Ho imparato a mie spese che chiudere la porta non significa necessariamente rifiutarmi. Ho capito con dolore che l’amore è qualcosa che non si può pretendere e che se non arriva, la colpa è nostra solo fino ad un certo punto. Ma non glielo posso più dire. Quello schiaffone che ancora brucia mi ha tolto la voce e la parola, è diventato parte di me e della mia quotidianità. Mi ha cambiato la vita e mi ha reso meno presuntuosa e meno intransigente.
La maggior parte delle persone che conosco crede in qualcosa. Qualcosa di grande ed irraggiungibile. Così si ha tutta la vita per cercare di ottenerlo e la vecchiaia per rimuginare sul risultato. Magari dovrei farlo anche io. Come quando frequentavo il box 2 in attesa della lotta di classe e riuscivo a riempire i giorni e la bocca di speranza e buoni propositi. Oppure potrei semplicemente concedermi una seconda possibilità, per togliermi quel peso, per annientare quel dolore ossessivo e martellante che da sei anni comprime le mie emozioni.

venerdì 26 febbraio 2010

aranci aranci


Accendo la tv per sentire rumore in casa. Per compagnia, come direbbe mia nonna. Di sottofondo solo le voci sgradevoli delle conduttrici dei programmi del pomeriggio di Mediaset, che è l’unica cosa che si vede in questa casa senza antenna. Una dice che nella casa del Grande Fratello ci sono 26 gradi. Non per scelta degli autori, sottolinea. A causa delle luci. Dove vivo io ce ne sono 10, con i termosifoni e una stufa elettrica accesi. E qualche lampadina a risparmio energetico, sperando che l’unione faccia la forza.
I ragazzi in gabbia di canale 5 colorano lo schermo con pettorali scolpiti e tette rifatte in bella vista. Io, a casa mia, non riesco neppure a depilarmi per andare in piscina. Operazioni come questa richiedono una certa nudità e le nudità, qui, non sono permesse. No, no. Anche la doccia la faccio ad occhi chiusi, non sia mai che lo sforzo mi permetta di immaginare di trovarmi in una calda e assolata spiaggia del Brasile.
È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Non pensavo che si potesse vivere così al giorno d’oggi. Insomma, non a Milano, non nei loft che fanno tanto figo, fighetto e al passo con le nuove tendenze del design. Si parla tanto di terzo mondo e, a volte, il terzo mondo è più vicino di quanto non si creda. Il mio è un terzo mondo capitalistico. Sono l’ultima ruota del carretto sfondato che è l’Italia. Sono quella che prende la casa più piccola che c’è, perché 100 euro di affitto in meno fanno la differenza, quella che la arreda con mobili rubati nottetempo alle discariche e quella che non può permettersi una causa legale per rovinare i proprietari del suo tugurio. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, se pensiamo che, ad un km da qui, tenevo spento il termosifone di camera mia perché altrimenti non riuscivo a respirare. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico, perché mi sveglio ogni mattina per andare a lavorare a 2000 km da casa mia e da tutti i miei affetti e non mi lamento perché la fatica mi rende indipendente. È strano, è paradossale e, se vogliamo, alquanto ironico. Ma eccomi qui, a schiacciare in solitudine i miei maroni. In Sicilia si direbbe: “Aranci aranci, ri cui su i guai si chianci”. Qui non lo so, perché il dialetto lumbard è una di quelle cose che fortunatamente posso evitare di conoscere. Ri cu su i guai si chianci. Già, e piangere è davvero un fatto privato.

terrone in trasferta


Mi chiedo cosa voglio fare da grande. E mi rispondo che grande lo sono già. Allora chiedo agli altri di chiedermelo, magari sotto pressione mi viene qualche idea gloriosa. Ma gli altri non hanno tempo di fare domande. A Milano si corre e ci si ferma solo per una lampada o un paio di ore di shopping.
Eppure avevo dei sogni. Me lo ricordo. E migliaia di aspettative. Ed energie, per illudermi di potercela fare.
Milano. L’avevo immaginata diversa. Fredda, calcolatrice, grigia, fumosa, certo, ma diversa. Quando si cresce in un paesino piccolo piccolo come il mio, ci si convince che ciò che è grande, è bello per forza. O, quanto meno, è pieno di cose. Milano è grande ed è piena di cose, ma non è bella, né per forza, né con impegno. Milano è una grande bolla di vetro con la neve e le luci alle finestre. È una fortezza di paure, dove ognuno aspira a rifugiarsi nel suo metro quadrato con la chiusura ermetica. A Milano non ci si incontra. Se si ha voglia di compagnia, ci si iscrive a facebook e si passa il tempo ad accettare inviti di ogni tipo per iscriversi a gruppi di pensatori su qualcosa, qualunque cosa sia. Oppure ci si raggruppa per categorie, ex di questo e quello o nuovi appartenenti a quello o quell’altro. Tutto via internet, ovviamente, al di là delle finestre, oltre i vetri. Milano è la più grande illusione dello stivale e chi viene dal sud, come me, deve accontentarsi di guardare quelle luci dal vicolo pieno di neve e diffidenza. Chi viene dal sud come me è un terrone in trasferta. E lo è per tutta la durata della sua permanenza padana.
Vivo a Milano da più di tre anni. Lavoro precariamente qui, quest’anno da settembre a giugno. L’anno prossimo, Gelmini o non Gelmini, chissà.
Cosa voglio fare da grande? Non lo so. Ma più passa il tempo e più mi convinco che voglio tornare dalla trasferta. E festeggiare con gli amici di sempre la mia sconfitta.